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In questa raccolta di poesie della Cabras, ho trovato testi densi di dolore e per questo rilucenti una particolare grazia poetica. V’è il pulsare di una sofferenza, il tentativo di elaborare il lutto con la scrittura: la partenza definitiva, nella morte, delle persone più care, è un dolore che taglia e divide l’esistenza in due metà, la speranza è che un filo di continuità rimanga tra esse. Varie e significative immagini si rincorrono nel riuscito intento di dare voce allo scoramento, mi ha colpito la figura della notte che entra dappertutto “[…] / tra le coperte / nel tuo viso cavo / nelle mie viscere / […] / si è tuffata anche nella minestra / inghiottita a fatica / tra il muro triste e la tovaglia a fiori” (pagina 27).
Ma è per il ricordo di coloro che ci lasciano, per custodire l’esistenza nella continuità del tempo, che ci si ostina nel tentativo di dare un senso a quel qualcosa di completamente assurdo: “Quell’ostinato voler dare un senso / a ciò che è morto / che penetra e piaga / che si fa parola / nell’attimo stesso / in cui di lei, di me / scrivo”. La parola scritta sopperisce all’assenza di voce di chi rimane senza fiato sull’abisso del non senso, la scrittura avviene come una necessità, pezza da stringere tra i denti al culmine di un dolore insopportabile: “Se scrivo è perché / non ho pace / e tremo di guerra // scrivo perché / non ho voce / ma solo mani nodose / come quelle di mia madre / e una penna che corre sul foglio // […]”.

Già nell’esergo dell’autrice, “In memoriam” (“Era come un nuraghe mia madre quando aveva paura del vento. / Si nascondeva nel cono dei suoi avi e pregava con il rosario in mano. / […]”), la Cabras stabilisce il perimetro entro il quale si svolge la sua esperienza personalissima di sofferenza, nel focolare domestico, nel territorio sardo, nell’aderenza alla potenza atavica di una fede personalissima. Sono significative e azzeccate le due poesie in sardo che l’autrice riporta a pagina 13 e a pagina 36, con tanto di traduzione italiana. La scrittura in dialetto avviene proprio in corrispondenza di momenti particolarmente dolorosi, “Dolcezza amara / che mi sfiori / […] / Sono rimasta sola. / Il mio sussulto ha il passo del sopravvissuto”, la prima, e “Ho sputato l’urlo / sulle ceneri di mio padre / ho sputato dolore al dolore / […] / Dentro la mia crepa / ho conficcato calcina e fiori”, la seconda. Il canto poetico espresso in dialetto sardo risuona come un canto tribale, è la necessità di spogliarsi, liberandosi di sovrastrutture, di intelligenze, di pacati e non più adatti ragionamenti, e scandagliare la terra del dolore a piedi nudi, a libero canto, raccogliendo la vita fino a quel momento e ripartire, sciogliendo quell’urlo nel petto, per decenza troppo trattenuto, ormai assolutamente necessario al riavvio.

“Tutto ciò che esiste / può non essere più // […]” (pagina 15), questa è la terribile sottaciuta verità della nostra esistenza, il fatto che ciò che per anni è stato il cerchio, più o meno ampio, della nostra esperienza, può restringersi, talvolta in un attimo, collassando in un punto, scomparire, lasciandoci in un altrove ignoto, dove, per istinto di sopravvivenza sarà rigenerato un nuovo perimetro vitale, a sua volta destinato al collasso, fino alla nostra definitiva dipartita.

“In questa casa / nessuno / muove l’ombra dell’aria / solo io, / di me il corpo // Sulla sedia / lenzuola riposte / in pieghe di rimembranza” (pagina 16), nuovi paradigmi esistenziali andranno elaborati, nuove dinamiche, che possano far riemergere dalla staticità dell’assenza definitiva, chi discretamente muoveva l’aria intorno a noi, riempiendo quegli spazi nostri vitali così profondamente che solo nell’assenza ci se ne può pienamente rendere conto. Così evidente come lo spegnersi di una luce nell’oscurità.

Alcuni riti sono però necessari per riemergere dal mare denso del dolore, portare lo sguardo verso chi ancora si muove, vivo, intorno a noi, e magari condivide il nostro dolore in vario modo, o per averlo già provato o per la vicinanza manifestata: “[…] Il dolore non è mai solo nostro” (pagina 17).

Tutto questo è espresso in poesie musicalmente rifinite che non restano circoscritte in un ambito puramente soggettivo o diaristico, sono canti, lamenti o urla, testi di ampio respiro, universalmente riconoscibili nell’esperienza di ognuno: arte poetica.

 Franca Alaimo - 08/06/2010 18:15:00 [ leggi altri commenti di Franca Alaimo » ]

Avevo da tempo, qui, sulla mia scrivania, il libro di Maria Grazia Cabras, in attesa, come altri, di essere letti. La recensione di Roberto, così partecipe e commossa, mi ha messo la curiosità di farlo subito.
E, siccome, l’esplorazione di Roberto dei modi in cui è sentito il dolore delle perdite familiari è più che esaustiva e rivela un ascolto profondo e intimamente condiviso e condivisibile, vorrei approfondire un altro aspetto del fare poetico della Cabras, e che si rende manifesto già nella lirica d’apertura, in cui la presenza del mito di Orfeo agisce sulle aspettative del lettore secondo due direzioni: la morte, certamente, per via della discesa all’Ade, in cerca della morta Euridice ( ed è questa appunto una delle direzioni, ma anche il canto in sè come discesa anch’esso in un mondo "altro", il cui enigma è sfuggente come l’ombta stessa di Euridice. Ecco perché la Cabras afferma di non trovare in questa sua altra discesa "orma o traccia / che accolga l’ardore / con cui cerco la parola // qualcosa che infranga / sillabe morte". Attendevo, infatti, che prima o poi l’autrice parlasse di queste "sillabe morte", perché, al di là dei temi e delle occasioni del suo poetare ( ci sono anche in questa silloge poesie d’amore), c’è in lei un sentire così appassionato e direi "selvatico", originario della parola, ( "mi prendi con mano feroce") ,che la conduce alla volontà di sforarne i limiti, alla ricerca di "un fonèma di puro fiore". L’attesa che sta dentro la parola è quella di una visione risolutiva, impossibile quanto feroce, appunto, per cui esse, le parole assolute tanto agognate, sono destinate a farsi "spente prima di apparire".
Infine Orfeo piega gli dei della morte a compassione, perché canta di una morta. Quante volte ho pensato al senso di questo mito che mi pare uno dei più variamente interpretabili, e però questa è la lettura che più mi convince, forse perché anch’io scrivo poesia, o meglio canto, come canta la Cabras con tutta la belelzza dei suoi suoni: Orfeo è il poeta, che continuamente scende e risale dagli inferi, in compagnia di ombre e ricordi. Maria Grazia Cobras lo sa.

 Mariella Bettarini - 04/06/2010 18:40:00 [ leggi altri commenti di Mariella Bettarini » ]

Caro Roberto,
grazie di cuore, anche a nome e da parte di Gabriella, per la costante attenzione ai volumi della nostra Gazebo Libri.
Toccante, intensa davvero la tua recensione al bellissimo libro dell’amica Maria Grazia.
Un augurio e un saluto da parte di
Mariella e Gabriella

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